Dr.ssa SIMONA CORVINO
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Una finestra sul mondo della psicologia e della psicoterapia
Curiosità, falsi miti, informazioni e molto altro

L'origine dei sintomi ansiosi

5/30/2017

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La teoria polivagale di Porges aiuta a comprendere l’origine degli stati d'ansia e dei sintomi ad essi associati che si esprimono generalmente con sintomi fisici propri dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, in grado di svolgere una funzione di attivazione e reazione, nonchè di utilizzo dell’energia corporea, provocando  l’aumento dell’arousal (sul piano fisico legato ad alterazione della frequenza cardiaca, sudorazione corporea, pressione arteriosa, concentrazione di cortisolo, ecc) e determinando risposte di orientamento verso il pericolo come le reazioni di evitamento attivo, tipiche dell’attacco o della fuga, oppure, in caso di iperarousal, il blocco ipertonico con completo blocco ed irrigidimento muscolare. Il modello tripartito di Porges del sistema vagale sostiene che esistano tre circuiti neurali, corrispondenti a diversi stadi (complesso dorso vagale, sistema simpatico-adrenergico,complesso ventro-vagale), nonché a tre livelli sul piano comportamentale, laddove se l’ambiente è percepito come sicuro, il sistema ventro-vagale predomina sul sistema simpatico e sul sistema dorso-vagale, promuovendo nell’organismo una risposta di interazione sociale attraverso il ricorso ai sistemi d’azione dell’attaccamento, della socializzazione, del gioco e dell’esplorazione. Se l’ambiente è percepito come insicuro, il pericolo attiva il sistema simpatico, favorendo reazioni adattive di evitamento attivo che permettono di attaccare o fuggire. Se l’ambiente è percepito come pericoloso o minaccioso, si ricorre al più arcaico sistema dorso-vagale con reazioni di evitamento passivo (sottomissione, freezing passivo, numbing, dissociazione, immobilità tonica e feigned death).
Comprendere l'origine dei propri stati ansiosi offre una qualità migliore della vita, laddove richiedere una consulenza psicoterapica per far luce sulla propria situazione attuale può essere il primo passo in un meraviglioso viaggio dentro di sè.
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La relazione psicoterapeuta-paziente e il suo potere trasformativo

5/30/2017

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La relazione terapeutica, ovvero quello che Donald Meltzer ha definito “gruppo di lavoro a due” (Meltzer, 1986) può essere analizzata, interpretata, vissuta o utilizzata, ma non può essere ignorata dal terapeuta, indipendentemente dall’orientamento prescelto, perché l’osservazione, la conoscenza, la valutazione diagnostica, gli interventi terapeutici e la misurazione della loro efficacia passano tutti attraverso il rapporto tra terapeuta e paziente, e ne assumono inevitabilmente le straordinarie proprietà. A tal proposito, la psicoanalista Paula Heimann (1970) sottolinea come nell’incontro, in condizioni di misterioso ed alchemico contatto reciproco, possa svilupparsi una “combustione transferale”, una sorta cioè di “impasto di inconsci” tra terapeuta e paziente, laddove ciascuno porta i propri elementi transferali, nuovi alla relazione appena accesa.
 In tale ottica, non è raro che l’incontro possa essere produttivo per entrambi.
Al di là degli approcci psicoterapici, tale posizione è diffusamente presente nel mondo della Psicoterapia, seppur con linguaggi differenti. La tesi fondamentale dell’intersoggettività in Liotti (1994/2005), vale a dire l’impossibilità di esaminare l’esperienza soggettiva al di fuori della continua condivisione di essa con l’esperienza delle altre persone, incluso lo psicoterapeuta, è ampiamente rappresentata nell’ambito del cognitivismo clinico. Le stesse neuroscienze sostengono oggi l’idea che la coscienza sia un fenomeno intrinsecamente relazionale, emergente continuamente dalla comunicazione fra il cervello individuale e il mondo, piuttosto che una proprietà privata del cervello individuale considerato in isolamento dal resto del corpo e del mondo.
A tal proposito, comprendere la centralità della relazione nella clinica dello sviluppo, dell’adolescenza e dell’età adulta, fa nascere l’esigenza di delineare programmi psicoterapeutici d’intervento flessibili e ben integrati, originati da una buona concettualizzazione della sofferenza, lasciando lo giusto spazio all’ascolto e alla consultazione terapeutica, al fine di una prognosi più favorevole.
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Mens sana in Corpore sano: SOS sintomi d'Ansia

5/9/2016

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L’ansia  si esprime generalmente con sintomi fisici propri dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, in grado di svolgere una funzione di attivazione e reazione, nonchè di utilizzo dell’energia corporea, provocando  l’aumento dell’arousal (sul piano fisico legato ad alterazione della frequenza cardiaca, sudorazione corporea, pressione arteriosa, concentrazione di cortisolo, ecc) e determinando risposte di orientamento verso il pericolo come le reazioni di evitamento attivo,tipiche dell’attacco o della fuga oppure, in caso di iperarousal, il blocco ipertonico con completo blocco ed irrigidimento muscolare.
Circa il 90% delle fibre del sistema nervoso parasimpatico, per intenderci quello che ha invece la funzione di risparmiare o ripristinare l’energia corporea, diminuire l’arousal, rallentare la frequenza cardiaca, facilitare i sistemi di attaccamento e della socializzazione, decorrono lungo il nervo vagale: il più lungo dei nervi cranici che raggiunge cuore, polmoni e quasi tutti gli organi addominali. Tale nervo costituisce un sistema neuronale integrato che permette la comunicazione tra i visceri e il cervello, tanto che la stimolazione degli afferenti del vago può arrivare a modificare l’attività cerebrale. Numerose ricerche hanno dimostrato come l’attività fisica mediamente intensa stimoli efficacemente il nervo vago, intendendo con “mediamente intenso” uno sforzo appena al di sopra delle nostre potenzialità, poichè uno sforzo troppo intenso, di contro, bloccherebbe il nervo vago.
Analogamente, i movimenti che richiedono un livello di coordinazione piuttosto complessa stimolano efficacemente il nervo vago. Le discipline con queste caratteristiche rappresentano dunque anche per i più piccoli un ottimo modo per sincronizzare emozioni, pensiero, ritmi esterni ed interni, capacità di attesa e padronanza. Quanto all’alimentazione, la connessione tra sistema digerente, intestino in particolare, e nervo vago è molto rilevante, rappresentando una delle vie di comunicazione primarie tra quello che mangiamo, la mente e il sistema immunitario.
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Disturbo da Stress Post Traumatico

4/29/2016

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Esperienze traumatiche possono essere vissute in maniera talmente angosciante da compromettere il normale funzionamento del bambino o dell'adulto e soddisfare così i criteri per un Disturbo Post-Traumatico da Stress. Tale quadro si caratterizza per la comparsa di una ricca sintomatologia che fa seguito a un episodio traumatico o a una serie di eventi traumatici collegati. Per definizione l’evento deve avere due caratteristiche: 1) deve comportare la minaccia di morte o la morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità di sé e degli altri; 2) deve essere percepito dalla persona come minaccioso, anche se nei bambini può essere difficile stabilire tale percezione, date le loro limitate capacità verbali. Ad ogni modo, prima dei quarantotto mesi, gli eventi traumatici riguardano fondamentalmente aggressioni di animali, incidenti, l’assistere all’uccisione del genitore, abuso fisico, abuso sessuale, disastri naturali, violenze familiari e sociali, perdite di figure di attaccamento e anche interventi medici.
Gli Autori dei  Manuali, in comune con l’adulto, individuano numerosi criteri diagnostici: la persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale era implicata la morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria e di altri, laddove la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente attraverso ricordi, sogni, flashback, disagio intenso, reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti che simbolizzano all’evento traumatico. Si riscontra un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma ed un’attenuazione della reattività generale  e sintomi persistenti di aumento arousal. La durata del disturbo deve essere altresì superiore ad un mese e causare disagio clinicamente significativo.
I sintomi più comuni in età evolutiva sono il continuo, ripetitivo, rivivere lo stressor in modo persistente anche nei giochi, nei sogni, nei disegni; l’evitamento degli stimoli in qualche modo legati al trauma; l’attenuazione della reattività generale, che produce una specie di obnubilamento; l’eccessiva attivazione; sentimenti di paura, orrore, impotenza; un comportamento disorganizzato e agitato; il ritiro sociale; la regressione intesa come perdita temporanea di abilità già acquisite come il linguaggio e il controllo sfinterico; i terrori notturni; le gravi anomalie del sonno; l’ipervigilanza; l’aggressività. In particolare, il quadro clinico in bambini e adolescenti affetti da Disturbo Post-Traumatico da Stress si caratterizza per la presenza di tre cluster sintomatologici ben definiti: Cluster Rievocazione, Cluster Evitamento, Cluster Iperattivazione. Il primo caratterizzato dalla continua presenza di pensieri intrusivi, oppure incubi, sogni o semplici flashback inerenti il trauma; altri bambini invece tentano di evitare costantemente il ricordo del trauma (cluster evitamento), compromettendo però molte attività quotidiane, esternalizzando il malessere con sintomi somatici o con la comparsa di atteggiamenti infantili ormai scomparsi da tempo; infine iperattività, agitazione, comportamenti aggressivi, disturbi del sonno e fluttuazioni del tono dell’umore sono peculiari dei bambini appartenenti al cluster iperattivazione.
Nella psicopatologia dello sviluppo gli stressor più tipici responsabili del Disturbo Post-Traumatico da Stress sono oggi, probabilmente, i maltrattamenti e gli abusi fisici e sessuali, la violenza domestica ed extradomestica, i disastri naturali e le guerre. È tuttavia importante sottolineare che queste sono cause necessarie ma non sufficienti per determinare l’insorgere di un quadro psicopatologico: fattori protettivi ancora non chiariti dalla ricerca fanno sì che non sempre a uno di questi stressor faccia seguito un quadro clinico. D’altra parte, fattori predisponenti personali e familiari possono produrre un disturbo di questo tipo anche a seguito di eventi poco drammatici .
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Il disturbo ossessivo-compulsivo: quei pensieri così intrusivi e i rituali che spingono a compiere

4/29/2016

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Elementi essenziali del Disturbo ossessivo-compulsivo sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti che creano allarme o paura e che costringono la persona a mettere in atto comportamenti ripetitivi o azioni mentali. In particolare le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi che si presentano più e più volte e sono fuori dal controllo di chi li sperimenta. Di contro, le compulsioni, definite anche rituali, sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali messi in atto per ridurre il senso di disagio e l’ansia provocata dai pensieri e dagli impulsi tipici delle ossessioni, costituendo un mezzo per eludere il disagio e cercare di conseguire il controllo.
Criteri diagnostici sono: la presenza di ossessioni o compulsioni, capaci di causare disagio marcato, interferendo significativamente con le normali abitudini, la non presenza di altri disturbi in grado di meglio contestualizzare il contenuto della sintomatologia, l’assenza di effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale. Negli adulti, per la diagnosi è necessario che sia presente la consapevolezza del fatto che le ossessioni sono irragionevoli e le compulsioni non servono, su un piano di realtà, a risolvere il problema, altrimenti si sfocia nella specifica “Con scarso Insight” o nell’area della Schizofrenia e altri Disturbi Psicotici, a seconda dei casi. In ambito evolutivo non vale tutto questo, dove è possibile trovare un Disturbo Ossessivo-Compulsivo anche in assenza di consapevolezza dell’irrazionalità delle ossessioni e delle compulsioni. 
In passato, si pensava che tale disturbo fosse molto raro nei bambini e, in generale, prima della pubertà. Negli ultimi anni la ricerca epidemiologica sembra invece dimostrare che, anche in età prepubere, il disturbo compaia con una certa frequenza. Nei bambini e negli adolescenti il disturbo è sovente centrato sui rituali dell’addormentarsi e associato a pensieri di morte. I temi più ricorrenti dei pensieri ossessivi sono la contaminazione, l’aggressività, la sessualità vissuta per lo più come sporca e proibita, la scrupolosità, la religiosità eccessiva, il bisogno, appunto ossessivo, di confessione, l’ossessione per la simmetria. Le più frequenti compulsioni sono invece centrate sul lavare e sul controllare, alle quali seguono il ripetere, il contare, l’ordinare, l’accumulare, il pregare.
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è frequentemente associato a sintomi depressivi, dove a volte è possibile la doppia diagnosi, così come frequentemente è associato ad altri Disturbi d’Ansia, al disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività e ai Disturbi dell’Apprendimento.
È dimostrata una significativa familiarità del disturbo: a tal proposito, nelle famiglie di questi pazienti, si ritrovano spesso importanti Disturbi d’Ansia, Disturbi dell’Umore e Disturbi da Tic.
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Le fobie specifiche nel ciclo di vita

4/29/2016

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La crescita fisiologica di ogni persona è costellata da innumerevoli paure, che nel corso della crescita tendono a scomparire. La mancata risoluzione delle fisiologiche paure infantili e l’amplificazione di tali ansie nel corso dello sviluppo possono strutturare un disturbo fobico. Solitamente le fobie semplici interferiscono sulla funzionalità quotidiana del bambino, facendo innescare una serie di condotte di evitamento. Per gli Autori dei principali manuali, i criteri diagnostici in comune tra adulti, adolescenti e bambini sono: paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall’attesa di un oggetto o situazione specifici. L’esposizione allo stimolo fobico quasi invariabilmente provoca una risposta ansiosa immediata. Nell’adulto la persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole, mentre per i bambini è più difficile che ciò avvenga; la situazione fobica viene evitata. Inoltre l’ansia anticipatoria, l’evitamento o il disagio interferiscono in modo significativo nella vita del soggetto e l’ansia, gli eventuali attacchi di panico o l’evitamento fobico associati alla situazione temuta non sono meglio giustificabili da un altro disturbo. In età evolutiva, oltre a queste condizioni, è necessario che i sintomi persistano per almeno sei mesi.
La Fobia Specifica rientra a pieno titolo nella più ampia categoria dei Disturbi d’Ansia e si caratterizza, dunque, per una esagerata paura generata da stimoli relativamente circoscritti. A seconda del tipo di stimolo si distinguono cinque sottotipi:
- tipo Animali (particolarmente frequente in età evolutiva);
- tipo Ambiente Naturale (temporali, altezze, ecc.)
- tipo Sangue-Iniezioni-Ferite;
- tipo Situazionale (in autobus o in galleria, su un viadotto, in ascensore);
- Altro tipo.
Da un punto di vista pratico, in età evolutiva, non è semplice distinguere una Fobia Specifica “propriamente detta” dalle paure anche intense, che sono molto frequenti nei bambini e fisiologiche, in determinate fasi dello sviluppo. Ad ogni modo, le paure normali sono moderate, transitorie e si riscontrano in una grande quantità di minori di pari età. Le fobie, invece, sono eccessive, disadattive e persistenti. Contrariamente a quanto avviene negli adulti, nei bambini non è necessaria la consapevolezza dell’irragionevolezza della fobia per porre diagnosi. 
La prevalenza del quadro si aggira intorno al 10%, ma la ricerca epidemiologica fornisce dati molto contrastanti: in altre parole è molto difficile, soprattutto nei bambini, decidere se una paura è normale e sostanzialmente innocua, oppure se deve essere considerata una fobia.
Tra i fattori eziologici predisponenti sono stati individuati la familiarità, gli atteggiamenti educativi, con particolare riferimento al meccanismo della trasmissione di informazione della paura dai genitori ai figli, gli eventi traumatici in apparenza anche non particolarmente drammatici.
In tutti questi casi, il trattamento elettivo sembra essere la psicoterapia di stampo cognitivo-comportamentale.
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La paura del giudizio altrui e la fobia sociale

4/28/2016

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La Fobia Sociale è uno stato d’intensa ansia, determinato da situazioni sociali con persone non familiari nei confronti dei quali il soggetto si sente esposto al giudizio. L’esposizione alla situazione temuta provoca ansia e può sfociare in un attacco di panico causato dalla situazione o sensibile ad essa, laddove la persona riconosce la paura come irragionevole e tali situazioni vengono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona; al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno sei mesi, laddove la paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici di una sostanza, a una condizione medica generale o ad altro disturbo mentale e nel caso in cui una condizione medica generale o un altro disturbo mentale siano presenti, la paura non è correlabile ad essi.
I bambini con Fobia Sociale sono spesso convinti che il loro comportamento sarà caratterizzato da carenze o manchevolezze e sarà oggetto di derisione da parte delle altre persone. Come per gli adulti, l’esternalizzazione del malessere avviene il più delle volte con importanti sintomi somatici, che fanno accrescere l’ansia e il senso di colpa. In età evolutiva la Fobia Sociale è stimata intorno all’1% dei soggetti, spesso associato al Mutismo Selettivo, laddove il temperamento di tali bambini è caratterizzato da inibizione ed elevata emotività .
I sintomi d’ansia più frequenti sono il senso di soffocamento, le vampate, le palpitazioni, il mal di testa, l’impressione di morire. Nell’ICD-10, a differenza del DSM-IV-TR, viene specificato che almeno due sintomi di ansia devono essere presenti contemporaneamente in almeno un’occasione, in associazione ad almeno uno dei seguenti elementi: arrossire o tremare, timore di vomitare e urgenza o timore di urinare o defecare. Inoltre l’ICD-10 specifica che i sintomi di ansia devono essere limitati o predominare nelle situazioni temute o nell’attesa di queste. Le paure maggiori riguardano solitamente parlare in pubblico, andare alle feste, mangiare davanti agli altri, scrivere alla lavagna, leggere in classe, parlare in un gruppo di coetanei. Questo spiega perché in età evolutiva, la Fobia Sociale assuma facilmente la forma di una fobia scolare. Il quadro psicopatologico, nella sua particolare forma di fobia della scuola, ha due picchi nel corso dello sviluppo: tra i cinque-sette anni, quando il bambino va a scuola per la prima volta, e con l’ingresso nell’adolescenza, approssimativamente tra i nove-quattordici- anni. L’esordio adolescenziale ha una prognosi peggiore e rappresenta la forma più comune, presumibilmente per le caratteristiche specifiche di questa fase del ciclo di vita, nel corso della quale l’autoconsapevolezza e la tendenza a guardarsi dentro con particolare attenzione, sembrano meccanismi cognitivo-emozionali importanti nella genesi del disturbo.
La ricerca ha messo in luce una correlazione tra questo disturbo e un atteggiamento intrusivo e iperprotettivo da parte dei genitori, unito talvolta a una riduzione dell’intimità affettiva familiare. Altre correlazioni avvengono con un’eccessiva valorizzazione degli studi e dei risultati scolastici da parte dei genitori, così come la famiglia può ancora essere parzialmente coinvolta nell’eziologia del disturbo a causa di possibili meccanismi di apprendimento vicario.
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Comprendere gli Attacchi di Panico

4/28/2016

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L’attacco di panico è un episodio critico, acuto o subacuto, in genere della durata di alcuni minuti (o talvolta fino a qualche ora), caratterizzato da intensa apprensione, paura o terrore, spesso associato con una sensazione di catastrofe imminente, a sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, paura di impazzire, morire o di perdere il controllo.
A tal proposito, elemento importante anche al fine del trattamento è valutare l’assenza o meno della componente agorafobica: manifestazione importante degli attacchi di panico, sintetizzabile come la paura di trovarsi in spazi non familiari con tante persone, di trovarsi in situazione in cui è difficile ricevere un aiuto.
Criteri diagnostici per il disturbo sono la presenza di attacchi di panico inaspettati e ricorrenti, presenza o meno di agorafobia, assenza di elementi che possano ricondurre agli effetti fisiologici di una sostanza o una condizione medica generale, mancanza di fattori connessi ad un altro disturbo mentale.
Nei bambini più piccoli è tipico uno stato improvviso e acuto di tensione e paura che diventa rapidamente terrore, pianto, agitazione motoria, fuga. In pubertà divengono frequenti dolori toracici, rossore, tremore, mal di testa, vertigini, laddove i sintomi cognitivi fanno generalmente la loro comparsa più tardivamente. Non è chiaro se il disturbo si possa trovare nei bambini: la letteratura non è concorde su questo argomento e, in ogni modo, l’attacco di panico non rappresenta certo un problema epidemiologicamente molto rilevante in età evolutiva, poiché l’esordio tipico è tra la tarda adolescenza e i venticinque anni. In alcuni casi, i Disturbi d’Ansia hanno una risoluzione spontanea, oppure possono portare all’insorgenza di nuovi disturbi, dove importante fattore predittivo si rivela essere la fragilità del soggetto di fronte agli eventi sfavorevoli. A tal proposito, il trattamento deve basarsi sulla psicoterapia unitamente, in adolescenza, all’intervento educativo nel ragazzo e nella famiglia, mentre la farmacoterapia deve essere demandata solo alle forme più resistenti e invalidanti. 
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Ansia Generalizzata: vivere nella costante attesa che qualcosa di terribile stia per accadere

4/28/2016

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​L’ansia generalizzata si riscontra in età adulta,  adolescenziale e con una certa frequenza anche in età evolutiva, ma raramente come un disturbo isolato, trovandosi per lo più in comorbilità con altri Disturbi d’Ansia. Si tratta di una forma d’ansia, a volte di una vera e propria angoscia, e sempre in senso forte di apprensione, preoccupazione, aspettativa del peggio, che si manifesta in assenza di sintomi specifici. La persona vive come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Così avviene che questa incapacità e questo vuoto di parole, utili per descrivere ciò che si prova e perché lo si prova, possono aumentare il senso di disagio e di angoscia, alimentando un circolo vizioso che può arrivare a produrre molta sofferenza. Tutta quest’ansia di cui non si conosce neppure la causa porta nel paziente irritabilità, bisogno di avere qualcuno vicino per essere calmato e rassicurato. Di qui la frequente associazione con il Disturbo d’Ansia di Separazione o a idee depressive. I sintomi principali sono: ansia e preoccupazione eccessive che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, a riguardo di una quantità di eventi o di attività, la difficoltà nel controllare la preoccupazione, sintomi come irrequietezza, affaticabilità, difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare, alterazione del sonno. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è inoltre limitato alle caratteristiche di un altro disturbo, pur causando disagio clinicamente significativo, e non deve essere riconducibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza, di una condizione medica generale, o essere associata ad un disturbo dell’umore, psicotico o pervasivo dello sviluppo.
Spesso vengono riferite manifestazioni somatiche, soprattutto mal di testa e mal di stomaco, sintomi fisici come tensione muscolare, difficoltà ad addormentarsi.  Oltre alla comorbilità con altri Disturbi d’Ansia e con i Disturbi Depressivi è facile trovare ansia generalizzata in bambini e ragazzi con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività: tutto ciò rende la diagnosi differenziale particolarmente difficile. Altro elemento di difficoltà per la diagnosi può essere costituito dal fatto che si può avere l’impressione di essere di fronte ad un bambino particolarmente maturo, mentre è possibile cogliere come certi comportamenti che sembrano molto assennati sono solo frutto del tentativo di tenere l’angoscia sotto controllo .
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Comunicare e regolare le emozioni

4/28/2016

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Parlare di emozioni e sentimenti in psicopatologia impone sempre una scelta. Ci sono molte teorie sulle emozioni e questo dipende anche dal fatto che si parla di emozioni attraverso il linguaggio che di per sé costituisce il limite descrittivo e per sua natura è oggetto di equivoci, laddove le emozioni non seguono le regole della logica formale, semplicemente emergono “ex motus”. Il loro emergere gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della vita relazionale, regolando i rapporti interpersonali e dirigendo pensiero, attenzione e memoria .  È dunque generalmente accettato che le emozioni sono coinvolte nei problemi di salute mentale e nelle psicopatologie. Tuttavia, tale affermazione non è molto significativa perché le emozioni, positive o negative che siano, sono sempre implicate in ogni comportamento volontario dell'individuo e, anche limitandola alle emozioni negative, essa non aiuta a comprendere i problemi di comportamento. La stessa classificazione delle emozioni come positive e negative è più una questione di convenienza che una regola della scienza del comportamento. Le cosiddette emozioni negative sono anche intrinsecamente adattative: condividere la tristezza rafforza i legami familiari e comunitari, l’ira potenzia la difesa della propria integrità e della giustizia sociale, il senso di colpa incrementa lo sviluppo della responsabilità e fa nascere il desiderio di riparare gli errori commessi. A causa di tale natura intrinsecamente adattativa delle emozioni in circostanze normali c’è disaccordo riguardo al ruolo che le emozioni giocano nel comportamento abnorme.
Non esiste dunque una linea di separazione tra il funzionamento emozionale normale e quello patologico (Brenner, 1982). Le emozioni vanno considerate patologiche quando sono: eccessive e persistenti, forti e in conflitto, disconnesse (emozione/cognizione), separate (emozione/cognizione/comportamento).
Ad ogni modo, quando si parla di controllo e modulazione dell’espressività emozionale non necessariamente ci si riferisce a una pura e semplice repressione e inibizione degli aspetti espressivi, piuttosto  ci si riferisce, alla capacità di dare un significato alle emozioni e alla possibilità di arricchire l’esperienza emozionale con un più saldo collegamento tra espressione emotiva e vissuto soggettivo. Alcune ricerche hanno mostrato come l’inibizione della comunicazione emotiva abbia delle profonde ripercussioni sullo stato di salute, soprattutto in presenza di fatti traumatici. L’inibizione espressiva in questi casi coincide con l’impossibilità di comunicare attraverso il linguaggio (o altri strumenti non verbali simbolici) l’esperienza emotiva, elaborandola. La distinzione tra aspetti espressivi e comunicativi nell’esteriorizzazione delle emozioni è di grande importanza in ambito clinico. L’incapacità che molti pazienti mostrano a verbalizzare le proprie emozioni (disturbo a cui è stato dato il nome di alessitimia da Sifneos, 1973), collegabile in buona parte all’origine dei disturbi psicosomatici, va considerata come una vera e propria impossibilità di elaborazione emotiva e di costruzione di un proprio mondo interno, piuttosto che incapacità di tipo espressivo.
Svariate ricerche effettuate nei CSM, ovvero nei Centri di Salute Mentale, hanno evidenziato quanto la domanda di psicoterapia sia orientata da problematiche che riguardano la convivenza tra le persone e le difficoltà a promuovere sviluppo nei contesti d’appartenenza. Semplificando, si potrebbe dire che le persone vanno in terapia non perchè soffrono di un disturbo mentale specifico, ma perchè hanno dei problemi nel rapporto con le loro emozioni in relazione a rapporti interpersonali. Si tratta, appunto, di “disturbi emotivi comuni” che implicano la difficoltà, ad esempio, a saper stare dentro una relazione d’amore o in un rapporto amicale; altre volte può riguardare la difficoltà nei contesti di apprendimento, quale la scuola o l’università o nei contesti lavorativi. Si tratta di domande che rispecchiano il bisogno di dare senso alla propria vita emotiva, di costruire delle priorità attribuendo valore alla propria identità e alle proprie relazioni. In questi casi, lo psicoterapeuta non ha come pazienti dei “depressi o degli ansiosi”, ma si confronta con le emozioni, con i progetti, i desideri e i vincoli dell’altro. Altro che non può essere declinato e forzato dentro le categorie della tradizione psichiatrica, laddove la psicoterapia è un processo volto alla promozione dello sviluppo del “pensiero sulle proprie emozioni”. Molte volte questo “prodotto” non è qualcosa di visibile e tangibile, piuttosto si tratta di aiutare il paziente ad acquisire degli strumenti di riflessione sulle proprie emozioni.

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L' ABC della Psicosomatica

4/19/2016

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Con il termine psicosomatica intendiamo quell’ampia fascia di patologie tra lo psichico e il corporeo, con manifestazione di una sintomatologia organica di cui è possibile percepire l’origine psicologica. Il meccanismo della somatizzazione, invece, è il processo alla base del disturbo psicosomatico. A tal proposito, con il termine somatizzazione s’intende generalmente il meccanismo trasformativo che, a partire da specifici contenuti psichici, opera un cambiamento a livello somatico, attraverso il coinvolgimento del sistema endocrino ed immunitario.
Il meccanismo della somatizzazione, infatti, è il cardine sul quale si fonda la dinamica del disturbo psicosomatico, somatoforme o da sintomi somatici, veicolando contenuti di natura psichica che tuttavia si prestano ad un’opera di traduzione-conversione sul versante corporeo.
Insomma, i disturbi psicosomatici (o da sintomi somatici) sono caratterizzati dalla presenza di sintomi fisici che suggeriscono l’esistenza di un disturbo organico (da qui definito anche somatoforme), i cui sintomi però non sono giustificati né da una condizione medica generale né dagli effetti diretti di una sostanza, ma solo dalla presenza di un disagio mentale.
Si immagini una situazione tipica in cui potrebbe verificarsi un disturbo da sintomi somatici: una rabbia non espressa, inibita, gestita canalizzata attraverso un meccanismo di somatizzazione sul corpo producendo, in questo modo, un sintomo organico come mal di pancia ricorrente.
Solitamente l’insorgere di tali meccanismi è attribuito allo stress, all’ansia, alla paura o a un forte disagio, che attivano (talvolta in maniera smisurata, come se ci si trovasse sempre in situazioni di emergenza) il sistema nervoso autonomo, il quale a sua volta risponde con reazioni vegetative che causano problemi fisici, come ad esempio:
- disturbi dell’apparato gastrointestinale: nausea, meteorismo, vomito, diarrea, colite, ulcera, gastrite, intolleranza a cibi diversi;
- disturbi dell’apparato cardiocircolatorio: aritmia, ipertensione, tachicardia;
- disturbi dell’apparato urogenitale: dolori e/o irregolarità mestruali, disfunzioni dell’erezione e/o dell’eiaculazione, anorgasmia, enuresi;
- disturbi dell’apparato muscolare: cefalea, crampi, torcicollo, mialgia, artrite;
- disturbi della pelle: acne, psoriasi, dermatite, prurito, orticaria, secchezza cutanea e delle mucose, sudorazione eccessiva;
- disturbi pseudo-neurologici: sintomi da conversione come alterazioni della coordinazione e/o dell’equilibrio, paralisi o ipostenie localizzate, difficoltà a deglutire, afonia, cecità, sordità, amnesie;
-  disturbi dell’alimentazione: anoressia, bulimia.
I sintomi non sono prodotti in maniera intenzionale né sono simulati. Questi sintomi fisici, non intenzionali, possono portare ad un grado di disagio o mal funzionamento molto elevato in diverse aree, sociale, affettiva e lavorativa.
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    A cura della Dottoressa
    ​Simona Corvino

    Psicologa-Psicoterapeuta

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