L’infant research è un filone di ricerche sullo sviluppo psichico infantile che trova, in origine, una delle sue spinte propulsive e di guida nella psicoanalisi, per poi distaccarsene fino a contrapporvisi. Il pressante invito che l'infant research rivolge alla psicoanalisi è quello di utilizzare modelli concettuali coerenti con l'evidenza empirica da loro prodotta, ma il padre della psicoanalisi e i suoi più fedeli seguaci, avevano tutt’altra opinione, e come molti altri brillanti e audaci autori -Jung e Bowlby, tanto per citarne alcuni-, anche Daniel Stern, uno dei più celebri esponenti dell’infant research, presto si distaccherà dal discorso psicoanalitico, assumendo un punto di vista autonomo quanto attuale ed innovativo. "Così come devono svilupparsi i bambini, devono svilupparsi anche le nostre teorie su di loro e sulla loro esperienza" scrive Stern in conclusione del suo libro, rivelando la sua critica alle teorie dello sviluppo del bambino e avviando la sua personale e moderna ricerca centrata sullo sviluppo della relazione madre/bambino, delle competenze dell'uno e dell'altra, delle possibili variazioni della normalità e della patologia. In particolare, Stern vede il bambino attivamente impegnato nella ricerca di stimoli e in grado di regolare, con il contributo materno, il loro eccesso o la loro carenza per raggiungere livelli ottimali di stimolazione. Fin dalla nascita, il piccolo è in grado di sperimentare il processo di emergenza di un’organizzazione interna attraverso il collegamento di esperienze isolate -percezione amodale e percezione degli affetti vitali- che rappresentano processi globali implicati nella formazione di un se’ emergente. Per Stern, il bambino possiede inoltre predisposizione all’interazione sociale, assenza di indifferenziazione o di confusione tra se’ e l’altro- neanche nei primi mesi di vita-, sottolineando l’importanza dei cruciali cambiamenti che si verificano nei primi due anni di vita e sviluppo, intesi come una sequenza epigenetica di compiti adattivi, risolti solo attraverso la negoziazione e la riorganizzazione all’interno del sistema diadico madre-bambino, emergenti con la maturazione delle capacita’ fisiche e mentali del bambino. Uno degli aspetti più rivoluzionari, consiste nell’adottare una prospettiva relazionale, laddove a) sulla base delle prime interazioni, il bambino costruira’ i modelli di esperienza soggettiva interna e di relazione che costituiscono le rappresentazioni mentali di se’ e dell’altro; b) esiste un sistema di comunicazione continuo all’interno della diade madre-bambino; c) il bambino è inteso come parte di un sistema interazionale. All’interno delle danze interattive tra madre e bambino si producono comportamenti complessi che seguono un modello del tipo tema con variazioni -linguaggio, espressioni del viso, movimenti del corpo sono tutti eseguiti con una certa ripetitivita’ e alterazioni moderate di essa-. A partire dai salti biocomportamentali dei primi 3 anni, la tendenza innata all’organizzazione globale e coerente dell’esperienza, permette uno sviluppo progressivo, articolato in sensi del se’: a)emergente (0-4 mesi) organizzato attraverso una modalità soggettiva globale di fare esperienza di sé e dell’altro; b) nucleare (2-6 mesi) dato dalla capacità del bambino di percepirsi come entità fisica unitaria dotata di coesione, volontà e continuità; c) soggettivo (7-15 mesi) caratterizzato dalla possibilità di condividere le esperienze personali con l’altro, dallo sviluppo di una teoria delle menti separate con conseguente capacità di sperimentare la sintonizzazione affettiva con la madre e accedere al campo di relazione intersoggettiva, come segnalato dagli importanti cambiamenti osservabili dopo gli 8-9 mesi; d)verbale (15-18 mesi) connesso alla maggiore consapevolezza di sé, alla capacità di riconoscersi allo specchio, all’uso del pronomi, accesso al gioco simbolico “del fare finta”; e) narrativo (3-4 anni) legato allo sviluppo del linguaggio.
Va da sè che, in tale ottica, la psicopatologia sia intesa come un accumulo di modelli relazionali disfunzionali come nel caso di:
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La teoria polivagale di Porges aiuta a comprendere l’origine degli stati d'ansia e dei sintomi ad essi associati che si esprimono generalmente con sintomi fisici propri dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, in grado di svolgere una funzione di attivazione e reazione, nonchè di utilizzo dell’energia corporea, provocando l’aumento dell’arousal (sul piano fisico legato ad alterazione della frequenza cardiaca, sudorazione corporea, pressione arteriosa, concentrazione di cortisolo, ecc) e determinando risposte di orientamento verso il pericolo come le reazioni di evitamento attivo, tipiche dell’attacco o della fuga, oppure, in caso di iperarousal, il blocco ipertonico con completo blocco ed irrigidimento muscolare. Il modello tripartito di Porges del sistema vagale sostiene che esistano tre circuiti neurali, corrispondenti a diversi stadi (complesso dorso vagale, sistema simpatico-adrenergico,complesso ventro-vagale), nonché a tre livelli sul piano comportamentale, laddove se l’ambiente è percepito come sicuro, il sistema ventro-vagale predomina sul sistema simpatico e sul sistema dorso-vagale, promuovendo nell’organismo una risposta di interazione sociale attraverso il ricorso ai sistemi d’azione dell’attaccamento, della socializzazione, del gioco e dell’esplorazione. Se l’ambiente è percepito come insicuro, il pericolo attiva il sistema simpatico, favorendo reazioni adattive di evitamento attivo che permettono di attaccare o fuggire. Se l’ambiente è percepito come pericoloso o minaccioso, si ricorre al più arcaico sistema dorso-vagale con reazioni di evitamento passivo (sottomissione, freezing passivo, numbing, dissociazione, immobilità tonica e feigned death).
Comprendere l'origine dei propri stati ansiosi offre una qualità migliore della vita, laddove richiedere una consulenza psicoterapica per far luce sulla propria situazione attuale può essere il primo passo in un meraviglioso viaggio dentro di sè. La relazione terapeutica, ovvero quello che Donald Meltzer ha definito “gruppo di lavoro a due” (Meltzer, 1986) può essere analizzata, interpretata, vissuta o utilizzata, ma non può essere ignorata dal terapeuta, indipendentemente dall’orientamento prescelto, perché l’osservazione, la conoscenza, la valutazione diagnostica, gli interventi terapeutici e la misurazione della loro efficacia passano tutti attraverso il rapporto tra terapeuta e paziente, e ne assumono inevitabilmente le straordinarie proprietà. A tal proposito, la psicoanalista Paula Heimann (1970) sottolinea come nell’incontro, in condizioni di misterioso ed alchemico contatto reciproco, possa svilupparsi una “combustione transferale”, una sorta cioè di “impasto di inconsci” tra terapeuta e paziente, laddove ciascuno porta i propri elementi transferali, nuovi alla relazione appena accesa. In tale ottica, non è raro che l’incontro possa essere produttivo per entrambi. Al di là degli approcci psicoterapici, tale posizione è diffusamente presente nel mondo della Psicoterapia, seppur con linguaggi differenti. La tesi fondamentale dell’intersoggettività in Liotti (1994/2005), vale a dire l’impossibilità di esaminare l’esperienza soggettiva al di fuori della continua condivisione di essa con l’esperienza delle altre persone, incluso lo psicoterapeuta, è ampiamente rappresentata nell’ambito del cognitivismo clinico. Le stesse neuroscienze sostengono oggi l’idea che la coscienza sia un fenomeno intrinsecamente relazionale, emergente continuamente dalla comunicazione fra il cervello individuale e il mondo, piuttosto che una proprietà privata del cervello individuale considerato in isolamento dal resto del corpo e del mondo. A tal proposito, comprendere la centralità della relazione nella clinica dello sviluppo, dell’adolescenza e dell’età adulta, fa nascere l’esigenza di delineare programmi psicoterapeutici d’intervento flessibili e ben integrati, originati da una buona concettualizzazione della sofferenza, lasciando lo giusto spazio all’ascolto e alla consultazione terapeutica, al fine di una prognosi più favorevole. L’ansia, come gli affetti in generale, in famiglia è contagiosa. Genitori ansiosi che, per esempio, temono di usare i bagni pubblici perché ricettacolo di germi, o di partecipare a un evento in piazza perché spaventati dalla folla o di viaggiare in aereo perché terrorizzati dall’idea di volare, rischiano di trasmettere ansie e paure ai figli.
Ma il loro destino non è segnato: è possibile infatti fare qualcosa affinché i piccoli di casa non diventino ansiosi o fobici. Il percorso individuale del genitore è certamente il prerequisito fondamentale per favorire il benessere dei figli, ma il punto è che fare prevenzione con i bambini, affinché l’ansia dei genitori non li contagi, è importante come andare ogni sei mesi dal dentista per preservare la salute dei denti e prevenire la carie. Diversi fattori concorrono infatti a innescare i disturbi d’ansia. Il temperamento gioca sicuramente un ruolo fondamentale, così come i fattori ambientali: maggiori sono le esperienze negative che un bambino vive, maggiore è la probabilità che abbia a che fare con problemi di ansia. Ma non va sottovalutata anche quella componente dell’ansia che si apprende proprio da mamma e papà. In fondo i genitori sono il modello di riferimento per i figli e il loro modo di fare e di reagire alle situazioni può, inavvertitamente, aumentare i livelli di ansia nei bambini. Numerose ricerche hanno messo in luce come per evitare questo spiacevole passaggio di consegne, sia importante insegnare alle famiglie ad individuare i segnali di paure immotivate e di ansia eccessiva e cosa fare per spegnerli. Tale lavoro è possibile attraverso una buona psicoeducazione, volta ad insegnare ai genitori e al bambino il proprio “alfabeto emozionale”, incentivando ad accrescere la consapevolezza dei propri stati emotivi e ad identificare i pensieri spaventosi e, al bisogno, modificarli. Altro modo per ridurre l’ansia è insegnare ai piccoli il confronto con la realtà: imparare cioè a riconoscere quella paura sana che ci mette in allerta in caso di pericolo e, al contrario, quei timori esagerati che rischiano di prendere il sopravvento condizionando i nostri comportamenti. Insomma, se ci troviamo di fronte ad un leone, meglio tenersene alla larga, mentre sembrerebbe esagerato non mangiare una torta di compleanno per il timore che sia avvelenata. L’ansia, infatti, è sana quando ci induce a fare qualcosa di utile, di necessario: come studiare per non essere impreparati all’interrogazione o evitare situazioni di reale pericolo. Ma chi soffre di disturbi di ansia, come nel caso delle fobie specifiche, non riesce a tenerla sotto controllo e quell’ansia sproporzionata rispetto alla situazione finisce con l’interferire con la quotidianità. Si potrebbe dire che, per non crescere figli ansiosi, sarebbe bene sospendere atteggiamenti iperprotettivi e ipercritici, privilegiando, invece, una buona dose di affetto e supporto emotivo. Ma per fare ciò è necessario che il genitore per primo sia ben consapevole del proprio mondo interiore e del proprio stile educativo, altrimenti sarà necessario rivolgersi ad uno psicologo-psicoterapeuta specialista, in grado di sostenere la genitorialità attraverso un percorso di parent training, poichè offrire questo tipo di servizio alle famiglie a rischio potrebbe ridurre anche i costi dell’assistenza sanitaria. In fondo, prevenire è meglio che curare. L’ansia si esprime generalmente con sintomi fisici propri dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, in grado di svolgere una funzione di attivazione e reazione, nonchè di utilizzo dell’energia corporea, provocando l’aumento dell’arousal (sul piano fisico legato ad alterazione della frequenza cardiaca, sudorazione corporea, pressione arteriosa, concentrazione di cortisolo, ecc) e determinando risposte di orientamento verso il pericolo come le reazioni di evitamento attivo,tipiche dell’attacco o della fuga oppure, in caso di iperarousal, il blocco ipertonico con completo blocco ed irrigidimento muscolare.
Circa il 90% delle fibre del sistema nervoso parasimpatico, per intenderci quello che ha invece la funzione di risparmiare o ripristinare l’energia corporea, diminuire l’arousal, rallentare la frequenza cardiaca, facilitare i sistemi di attaccamento e della socializzazione, decorrono lungo il nervo vagale: il più lungo dei nervi cranici che raggiunge cuore, polmoni e quasi tutti gli organi addominali. Tale nervo costituisce un sistema neuronale integrato che permette la comunicazione tra i visceri e il cervello, tanto che la stimolazione degli afferenti del vago può arrivare a modificare l’attività cerebrale. Numerose ricerche hanno dimostrato come l’attività fisica mediamente intensa stimoli efficacemente il nervo vago, intendendo con “mediamente intenso” uno sforzo appena al di sopra delle nostre potenzialità, poichè uno sforzo troppo intenso, di contro, bloccherebbe il nervo vago. Analogamente, i movimenti che richiedono un livello di coordinazione piuttosto complessa stimolano efficacemente il nervo vago. Le discipline con queste caratteristiche rappresentano dunque anche per i più piccoli un ottimo modo per sincronizzare emozioni, pensiero, ritmi esterni ed interni, capacità di attesa e padronanza. Quanto all’alimentazione, la connessione tra sistema digerente, intestino in particolare, e nervo vago è molto rilevante, rappresentando una delle vie di comunicazione primarie tra quello che mangiamo, la mente e il sistema immunitario. L' Emetofobia, ovvero la paura di vomitare, causata dall'incapacità del soggetto di dominare e prevedere i propri conati, rappresenta una realtà clinica piuttosto controversa, sia dal punto di vista diagnostico sia da un punto di vista sintomatologico. Alla base di questa fobia c'è l'idea della perdita di controllo e dell'ansia di non sapere l'esito che avrà anche un comune senso di nausea provato.
In tale quadro clinico, la persona può essere colta da crisi e può rivelarsi difficile o imbarazzante isolarsi dalle persone a lei vicine e, nella stragrande maggioranza dei casi, gli attacchi di panico che seguono la paura di dover vomitare sono del tutto ingiustificati e non si risolvono quasi mai con effettivi conati. Ma cosa accade quando il paziente emetofobico è un bambino? Le Fobie Specifiche, più ampia categoria diagnostica cui l’Emetofobia appartiene, rappresentano una realtà clinica complessa, soprattutto in età evolutiva, poichè connesse, tra le altre cose, ad alcune questioni di comorbilità e/o diagnosi differenziale, innanzitutto con il Disturbo d’Ansia Generalizzato, il Disturbo d’Ansia di Separazione, la Fobia Sociale,il Disturbo Post Traumatico da Stress e il celeberrimo e complesso Disturbo Ossessivo-Compulsivo, non trascurando una buona diagnosi differenziale con un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, laddove l’ansia è una componente tipica anche di queste patologie. Al di là delle etichette diagnostiche, in età evolutiva, di fronte ad un bambino con gravi reazioni ansiose in seguito a stimoli specifici, come il vomito nel caso in questione, i quesiti clinici da porsi sono numerosi e necessitano di un’attenta analisi connessa anche a fattori predisponenti la fobia, quali la familiarità e gli atteggiamenti educativi, con particolare riferimento al meccanismo della trasmissione di informazione della paura dai genitori ai figli o ad eventi traumatici in apparenza anche non particolarmente drammatici. Molto più rilevante, da un punto di vista pratico, è distinguere una Fobia Specifica propriamente detta dalle paure, anche intense, che sono molto frequenti nei bambini e, in determinate fasi dello sviluppo, fisiologiche. A tal proposito è utile tenere a mente che le paure normali sono moderate, transitorie e si riscontrano in una grande quantità di bambini di pari età. Le fobie invece, sono eccessive, disadattive e persistenti.Premesso ciò, una buona diagnosi, affidata a mani esperte, fa riferimento innanzitutto ai segnali principali delle fobie specifiche in generale: un’irrazionale e fortissima risposta di paura in coincidenza con l’esposizione a specifici oggetti o situazioni, il vomito ad esempio, nonché una tendenza ad evitare ostinatamente e sistematicamente gli oggetti o le situazioni temute, laddove la fobia per definizione comprende sia la reazione di paura in presenza (o nell’attesa) di particolari oggetti e situazioni, sia un comportamento di evitamento del contatto diretto con gli oggetti o le situazioni stesse.Il paziente emetofobico talvolta non è in grado di rappresentarsi e immaginare le situazioni o le cose temute se non per pochi attimi e può temere anche di nominarle. La paura può essere attivata sia dalla presenza che da tracce che anticipano la presenza dell’oggetto (il vomito) o della situazione che crea disagio. Ad accrescere la sofferenza psichica di genitori e bambini c’è da dire che, contrariamente agli adulti, nei bambini non sempre è necessaria la consapevolezza dell’irragionevolezza della fobia per porre diagnosi, anche se a volte, alcuni piccoli pazienti sono in grado di riconoscere che tali reazioni non hanno una base ragionevole, pur non essendo in grado di controllarle, interferendo significativamente con le normali abitudini del bambino. Nell’ambito di una correlazione tra specifici schemi familiari e fobie in età evolutiva, la ricerca sulle fobie ha permesso di individuare anche alcuni stili educativi che favoriscono maggiormente, nel bambino, l’apprendimento di convinzioni, inferenze e valutazioni distorte sulla realtà e che in seguito possono dare origine a dei disturbi fobici. Gli stili educativi in questione sono: a) lo Stile ipercritico, caratterizzato da un’elevata frequenza di critiche rivolte al bambino sotto forma di rimproveri oppure manifestando biasimo nei suoi confronti, svalutandolo e mettendolo in ridicolo. b) Lo Stile perfezionistico, sostenuto dalla convinzione che il bambino debba riuscire bene in tutto ciò che fa e che il suo valore (e quello dei suoi genitori) sia determinato dal successo che ottiene in varie attività, sebbene in tal caso ci potremmo trovare con ogni probabilità più verso una sintomatologia del tipo ansia scolastica e/o ansia sociale. c) Lo Stile iperansioso-iperprotettivo infine, si manifesta in genitori che si preoccupano eccessivamente dell’incolumità fisica (iperansioso) del bambino e tendono a proteggere in continuazione il figlio da ogni minima frustrazione (iperprotettivo). Si può affermare che negli stili genitoriali sopracitati, attraverso una sorta di contagio emotivo, nel bambino vengono quindi modellate paura, timidezza e dubbi sul proprio valore personale. Questi sono, secondo la teoria cognitiva, gli stili educativi che possono contribuire a generare o quanto meno al mantenere nel soggetto una sintomatologia fobica. Albert Ellis, un esponente di questa scuola cognitiva, distingue le paure infantili in due categorie principali: la paura di eventi esterni e la paura delle proprie inadeguatezze (ansia d’esame, ansia sociale ecc.). Così, le paure vengono differenziate in paura di subire un danno fisico e paura di subire un danno di tipo socio-affettivo. In entrambi i casi, come nell’emetofobia, le frasi che il soggetto si ripete ( il suo dialogo interno) e che conducono alla paura sono costituite da questi tre tipi di pensieri, convinzioni: “Qualcosa di brutto potrebbe accadere”; “Se succede sarà orrendo e catastrofico”; “Siccome sarà orrendo, allora devo preoccuparmene e pensarci in continuazione”. Detto questo è bene tener presente come nei bambini, il sintomo ansioso possa manifestarsi in tanti modi: dalla paura di separarsi dai genitori, anche per poco tempo, al timore di alzare la mano in classe per fare la più banale e legittima delle richieste all’insegnante, dall’imbarazzo di relazionarsi con gli altri al terrore di fallire in qualsiasi prova, scolastica o sportiva che sia. L’ansia induce a sottovalutare la propria capacità di far fronte alle situazioni, e così la paura (per un pericolo sovrastimato) predomina e paralizza. Nei bambini poi la paura di vomitare può comportare il rifiuto di andare a scuola e l’evitamento di altri luoghi pubblici. I piccoli di casa, preoccupati di poter avere la nausea o di vomitare, possono talvolta evitare feste di compleanno, attività sportive o appuntamenti, anche pranzi o cene nei ristoranti, laddove perdersi queste attività può inficiare sulle relazioni e avere un impatto negativo sull’intero sviluppo sociale. Infine, la scarsa condivisione di materiale mediatico, lascerebbe ipotizzare che l’emetofobia sia una fobia rara, invece coinvolge moltissime persone, anche in Italia, con una maggiore incidenza femminile, laddove nella maggior parte dei casi è lecito pensare che le donne accedano più facilmente ai Servizi di diagnosi e cura, ammettendo una problematica di questo genere. In linea generale, un emetofobico difficilmente accede alla consultazione con uno specialista: la ragione più comune è che una psicoterapia conduce ad un cambiamento e il paziente in questione è probabile che abbia sviluppato un’elevata capacità di trattenere il vomito, pertanto potrebbe convincersi che, avviando il trattamento, non sarà più in grado di contenerlo così bene e quindi potrebbe vomitare. In realtà la psicoterapia consente al paziente di sviluppare una serie di strategie adatte non solo a gestire l’ansia che molto spesso si associa a questa fobia, ma soprattutto consente di creare un clima di fiducia, accettazione e comprensione con il proprio terapeuta. Ciò consente al paziente di imparare a gestire e comprendere meglio le dinamiche del suo rapporto con il vomito, per acquisire gli strumenti che gli consentiranno di accedere successivamente ad un reale cambiamento in grado di migliorare la qualità della sua vita e di chi gli sta accanto. I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) si manifestano con difficoltà nell’acquisizione delle abilità strumentali relative agli apprendimenti scolastici. I soggetti con DSA presentano il seguente profilo: caduta selettiva in una o più aree dell’apprendimento (lettura, scrittura, calcolo), livello intellettivo normale, assenza di disturbi neurologici, sensoriali e neuropsicologici primari ed assenza di situazioni ambientali di svantaggio socio-culturale che possono interferire con un’adeguata istruzione. Le difficoltà specifiche di apprendimento rappresentano uno dei più rilevanti problemi in ambito scolastico (in Italia sembra coinvolgere il 5% dei bambini in età scolare) ed in situazioni socioculturali svantaggiate possono costituire un fattore facilitante per la fuoriuscita dal sistema scolastico. Oltre all’insuccesso scolastico, nei soggetti con DSA si riscontrano ripercussioni sulla motivazione ad apprendere, sull’immagine di sé come studente e, più in generale, sull’autostima; tali difficoltà possono associarsi anche a disturbi d’ansia o depressione (Consensus Conference del 2007, legge 170/2010). La scuola e la famiglia sono gli osservatori privilegiati per individuare precocemente questo genere di problematiche. Il riconoscimento anticipato permette di attivare subito dei piani riabilitativi, fondamentali per un’evoluzione positiva del DSA. Oltre all’identificazione dei DSA, però, le figure educative devono essere in possesso di adeguate ed esaustive informazioni a riguardo, in modo da conoscere le problematiche che il bambino incontra, capire il tipo di compiti in cui egli può trovarsi in difficoltà e comprendere le ricadute che questi disturbi hanno a livello emotivo e sociale. Inoltre, non di ultima importanza, è utile avere indicazioni adeguate sugli aspetti riabilitativi: obiettivi perseguiti, tecniche utilizzate e professionisti coinvolti nel percorso. Queste informazioni risultano fondamentali per far sì che insegnanti e genitori possano supportare e scegliere il programma più adeguato alle esigenze del piccolo paziente. A tal proposito, i nuovi provvedimenti legislativi, come l’autonomia scolastica del dpr 275/99 e l’introduzione della Carta dei Servizi della Scuola, hanno ampliato gli ambiti di competenza del servizio offerto e l’individuazione di nuovi bisogni rispetto all’utenza. Le più recenti riforme, come la circolare ministeriale n.8 del 27/12/12 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali (BES) e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”, puntano alla valorizzazione delle risorse umane ed accanto alla formazione acquisita “di base” enfatizzano l’integrazione di nuove forme del sapere, sottolineando con forza l’importanza della figura dello psicologo nella scuola, così da poter fornire all’allievo in difficoltà una risposta pertinente ed efficace.
In assenza di tale figura all'interno dell'istituto scolastico, i genitori possono decidere autonomamente di portare il bambino in consultazione da uno psicologo esperto in tale area, allo scopo di effettuare una buona valutazione psicodiagnostica ed incentivare un percorso di potenziamento ad hoc a scuola come a casa, lavorando non solo sulle difficoltà negli apprendimenti ma anche sulle loro ripercussioni emotivo-affettive. Esperienze traumatiche possono essere vissute in maniera talmente angosciante da compromettere il normale funzionamento del bambino o dell'adulto e soddisfare così i criteri per un Disturbo Post-Traumatico da Stress. Tale quadro si caratterizza per la comparsa di una ricca sintomatologia che fa seguito a un episodio traumatico o a una serie di eventi traumatici collegati. Per definizione l’evento deve avere due caratteristiche: 1) deve comportare la minaccia di morte o la morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità di sé e degli altri; 2) deve essere percepito dalla persona come minaccioso, anche se nei bambini può essere difficile stabilire tale percezione, date le loro limitate capacità verbali. Ad ogni modo, prima dei quarantotto mesi, gli eventi traumatici riguardano fondamentalmente aggressioni di animali, incidenti, l’assistere all’uccisione del genitore, abuso fisico, abuso sessuale, disastri naturali, violenze familiari e sociali, perdite di figure di attaccamento e anche interventi medici.
Gli Autori dei Manuali, in comune con l’adulto, individuano numerosi criteri diagnostici: la persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale era implicata la morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria e di altri, laddove la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente attraverso ricordi, sogni, flashback, disagio intenso, reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti che simbolizzano all’evento traumatico. Si riscontra un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma ed un’attenuazione della reattività generale e sintomi persistenti di aumento arousal. La durata del disturbo deve essere altresì superiore ad un mese e causare disagio clinicamente significativo. I sintomi più comuni in età evolutiva sono il continuo, ripetitivo, rivivere lo stressor in modo persistente anche nei giochi, nei sogni, nei disegni; l’evitamento degli stimoli in qualche modo legati al trauma; l’attenuazione della reattività generale, che produce una specie di obnubilamento; l’eccessiva attivazione; sentimenti di paura, orrore, impotenza; un comportamento disorganizzato e agitato; il ritiro sociale; la regressione intesa come perdita temporanea di abilità già acquisite come il linguaggio e il controllo sfinterico; i terrori notturni; le gravi anomalie del sonno; l’ipervigilanza; l’aggressività. In particolare, il quadro clinico in bambini e adolescenti affetti da Disturbo Post-Traumatico da Stress si caratterizza per la presenza di tre cluster sintomatologici ben definiti: Cluster Rievocazione, Cluster Evitamento, Cluster Iperattivazione. Il primo caratterizzato dalla continua presenza di pensieri intrusivi, oppure incubi, sogni o semplici flashback inerenti il trauma; altri bambini invece tentano di evitare costantemente il ricordo del trauma (cluster evitamento), compromettendo però molte attività quotidiane, esternalizzando il malessere con sintomi somatici o con la comparsa di atteggiamenti infantili ormai scomparsi da tempo; infine iperattività, agitazione, comportamenti aggressivi, disturbi del sonno e fluttuazioni del tono dell’umore sono peculiari dei bambini appartenenti al cluster iperattivazione. Nella psicopatologia dello sviluppo gli stressor più tipici responsabili del Disturbo Post-Traumatico da Stress sono oggi, probabilmente, i maltrattamenti e gli abusi fisici e sessuali, la violenza domestica ed extradomestica, i disastri naturali e le guerre. È tuttavia importante sottolineare che queste sono cause necessarie ma non sufficienti per determinare l’insorgere di un quadro psicopatologico: fattori protettivi ancora non chiariti dalla ricerca fanno sì che non sempre a uno di questi stressor faccia seguito un quadro clinico. D’altra parte, fattori predisponenti personali e familiari possono produrre un disturbo di questo tipo anche a seguito di eventi poco drammatici . Il disturbo ossessivo-compulsivo: quei pensieri così intrusivi e i rituali che spingono a compiere4/29/2016 Elementi essenziali del Disturbo ossessivo-compulsivo sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti che creano allarme o paura e che costringono la persona a mettere in atto comportamenti ripetitivi o azioni mentali. In particolare le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi che si presentano più e più volte e sono fuori dal controllo di chi li sperimenta. Di contro, le compulsioni, definite anche rituali, sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali messi in atto per ridurre il senso di disagio e l’ansia provocata dai pensieri e dagli impulsi tipici delle ossessioni, costituendo un mezzo per eludere il disagio e cercare di conseguire il controllo.
Criteri diagnostici sono: la presenza di ossessioni o compulsioni, capaci di causare disagio marcato, interferendo significativamente con le normali abitudini, la non presenza di altri disturbi in grado di meglio contestualizzare il contenuto della sintomatologia, l’assenza di effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale. Negli adulti, per la diagnosi è necessario che sia presente la consapevolezza del fatto che le ossessioni sono irragionevoli e le compulsioni non servono, su un piano di realtà, a risolvere il problema, altrimenti si sfocia nella specifica “Con scarso Insight” o nell’area della Schizofrenia e altri Disturbi Psicotici, a seconda dei casi. In ambito evolutivo non vale tutto questo, dove è possibile trovare un Disturbo Ossessivo-Compulsivo anche in assenza di consapevolezza dell’irrazionalità delle ossessioni e delle compulsioni. In passato, si pensava che tale disturbo fosse molto raro nei bambini e, in generale, prima della pubertà. Negli ultimi anni la ricerca epidemiologica sembra invece dimostrare che, anche in età prepubere, il disturbo compaia con una certa frequenza. Nei bambini e negli adolescenti il disturbo è sovente centrato sui rituali dell’addormentarsi e associato a pensieri di morte. I temi più ricorrenti dei pensieri ossessivi sono la contaminazione, l’aggressività, la sessualità vissuta per lo più come sporca e proibita, la scrupolosità, la religiosità eccessiva, il bisogno, appunto ossessivo, di confessione, l’ossessione per la simmetria. Le più frequenti compulsioni sono invece centrate sul lavare e sul controllare, alle quali seguono il ripetere, il contare, l’ordinare, l’accumulare, il pregare. Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è frequentemente associato a sintomi depressivi, dove a volte è possibile la doppia diagnosi, così come frequentemente è associato ad altri Disturbi d’Ansia, al disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività e ai Disturbi dell’Apprendimento. È dimostrata una significativa familiarità del disturbo: a tal proposito, nelle famiglie di questi pazienti, si ritrovano spesso importanti Disturbi d’Ansia, Disturbi dell’Umore e Disturbi da Tic. La crescita fisiologica di ogni persona è costellata da innumerevoli paure, che nel corso della crescita tendono a scomparire. La mancata risoluzione delle fisiologiche paure infantili e l’amplificazione di tali ansie nel corso dello sviluppo possono strutturare un disturbo fobico. Solitamente le fobie semplici interferiscono sulla funzionalità quotidiana del bambino, facendo innescare una serie di condotte di evitamento. Per gli Autori dei principali manuali, i criteri diagnostici in comune tra adulti, adolescenti e bambini sono: paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall’attesa di un oggetto o situazione specifici. L’esposizione allo stimolo fobico quasi invariabilmente provoca una risposta ansiosa immediata. Nell’adulto la persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole, mentre per i bambini è più difficile che ciò avvenga; la situazione fobica viene evitata. Inoltre l’ansia anticipatoria, l’evitamento o il disagio interferiscono in modo significativo nella vita del soggetto e l’ansia, gli eventuali attacchi di panico o l’evitamento fobico associati alla situazione temuta non sono meglio giustificabili da un altro disturbo. In età evolutiva, oltre a queste condizioni, è necessario che i sintomi persistano per almeno sei mesi.
La Fobia Specifica rientra a pieno titolo nella più ampia categoria dei Disturbi d’Ansia e si caratterizza, dunque, per una esagerata paura generata da stimoli relativamente circoscritti. A seconda del tipo di stimolo si distinguono cinque sottotipi: - tipo Animali (particolarmente frequente in età evolutiva); - tipo Ambiente Naturale (temporali, altezze, ecc.) - tipo Sangue-Iniezioni-Ferite; - tipo Situazionale (in autobus o in galleria, su un viadotto, in ascensore); - Altro tipo. Da un punto di vista pratico, in età evolutiva, non è semplice distinguere una Fobia Specifica “propriamente detta” dalle paure anche intense, che sono molto frequenti nei bambini e fisiologiche, in determinate fasi dello sviluppo. Ad ogni modo, le paure normali sono moderate, transitorie e si riscontrano in una grande quantità di minori di pari età. Le fobie, invece, sono eccessive, disadattive e persistenti. Contrariamente a quanto avviene negli adulti, nei bambini non è necessaria la consapevolezza dell’irragionevolezza della fobia per porre diagnosi. La prevalenza del quadro si aggira intorno al 10%, ma la ricerca epidemiologica fornisce dati molto contrastanti: in altre parole è molto difficile, soprattutto nei bambini, decidere se una paura è normale e sostanzialmente innocua, oppure se deve essere considerata una fobia. Tra i fattori eziologici predisponenti sono stati individuati la familiarità, gli atteggiamenti educativi, con particolare riferimento al meccanismo della trasmissione di informazione della paura dai genitori ai figli, gli eventi traumatici in apparenza anche non particolarmente drammatici. In tutti questi casi, il trattamento elettivo sembra essere la psicoterapia di stampo cognitivo-comportamentale. La Fobia Sociale è uno stato d’intensa ansia, determinato da situazioni sociali con persone non familiari nei confronti dei quali il soggetto si sente esposto al giudizio. L’esposizione alla situazione temuta provoca ansia e può sfociare in un attacco di panico causato dalla situazione o sensibile ad essa, laddove la persona riconosce la paura come irragionevole e tali situazioni vengono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona; al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno sei mesi, laddove la paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici di una sostanza, a una condizione medica generale o ad altro disturbo mentale e nel caso in cui una condizione medica generale o un altro disturbo mentale siano presenti, la paura non è correlabile ad essi.
I bambini con Fobia Sociale sono spesso convinti che il loro comportamento sarà caratterizzato da carenze o manchevolezze e sarà oggetto di derisione da parte delle altre persone. Come per gli adulti, l’esternalizzazione del malessere avviene il più delle volte con importanti sintomi somatici, che fanno accrescere l’ansia e il senso di colpa. In età evolutiva la Fobia Sociale è stimata intorno all’1% dei soggetti, spesso associato al Mutismo Selettivo, laddove il temperamento di tali bambini è caratterizzato da inibizione ed elevata emotività . I sintomi d’ansia più frequenti sono il senso di soffocamento, le vampate, le palpitazioni, il mal di testa, l’impressione di morire. Nell’ICD-10, a differenza del DSM-IV-TR, viene specificato che almeno due sintomi di ansia devono essere presenti contemporaneamente in almeno un’occasione, in associazione ad almeno uno dei seguenti elementi: arrossire o tremare, timore di vomitare e urgenza o timore di urinare o defecare. Inoltre l’ICD-10 specifica che i sintomi di ansia devono essere limitati o predominare nelle situazioni temute o nell’attesa di queste. Le paure maggiori riguardano solitamente parlare in pubblico, andare alle feste, mangiare davanti agli altri, scrivere alla lavagna, leggere in classe, parlare in un gruppo di coetanei. Questo spiega perché in età evolutiva, la Fobia Sociale assuma facilmente la forma di una fobia scolare. Il quadro psicopatologico, nella sua particolare forma di fobia della scuola, ha due picchi nel corso dello sviluppo: tra i cinque-sette anni, quando il bambino va a scuola per la prima volta, e con l’ingresso nell’adolescenza, approssimativamente tra i nove-quattordici- anni. L’esordio adolescenziale ha una prognosi peggiore e rappresenta la forma più comune, presumibilmente per le caratteristiche specifiche di questa fase del ciclo di vita, nel corso della quale l’autoconsapevolezza e la tendenza a guardarsi dentro con particolare attenzione, sembrano meccanismi cognitivo-emozionali importanti nella genesi del disturbo. La ricerca ha messo in luce una correlazione tra questo disturbo e un atteggiamento intrusivo e iperprotettivo da parte dei genitori, unito talvolta a una riduzione dell’intimità affettiva familiare. Altre correlazioni avvengono con un’eccessiva valorizzazione degli studi e dei risultati scolastici da parte dei genitori, così come la famiglia può ancora essere parzialmente coinvolta nell’eziologia del disturbo a causa di possibili meccanismi di apprendimento vicario. Ansia Generalizzata: vivere nella costante attesa che qualcosa di terribile stia per accadere4/28/2016 L’ansia generalizzata si riscontra in età adulta, adolescenziale e con una certa frequenza anche in età evolutiva, ma raramente come un disturbo isolato, trovandosi per lo più in comorbilità con altri Disturbi d’Ansia. Si tratta di una forma d’ansia, a volte di una vera e propria angoscia, e sempre in senso forte di apprensione, preoccupazione, aspettativa del peggio, che si manifesta in assenza di sintomi specifici. La persona vive come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Così avviene che questa incapacità e questo vuoto di parole, utili per descrivere ciò che si prova e perché lo si prova, possono aumentare il senso di disagio e di angoscia, alimentando un circolo vizioso che può arrivare a produrre molta sofferenza. Tutta quest’ansia di cui non si conosce neppure la causa porta nel paziente irritabilità, bisogno di avere qualcuno vicino per essere calmato e rassicurato. Di qui la frequente associazione con il Disturbo d’Ansia di Separazione o a idee depressive. I sintomi principali sono: ansia e preoccupazione eccessive che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, a riguardo di una quantità di eventi o di attività, la difficoltà nel controllare la preoccupazione, sintomi come irrequietezza, affaticabilità, difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare, alterazione del sonno. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è inoltre limitato alle caratteristiche di un altro disturbo, pur causando disagio clinicamente significativo, e non deve essere riconducibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza, di una condizione medica generale, o essere associata ad un disturbo dell’umore, psicotico o pervasivo dello sviluppo.
Spesso vengono riferite manifestazioni somatiche, soprattutto mal di testa e mal di stomaco, sintomi fisici come tensione muscolare, difficoltà ad addormentarsi. Oltre alla comorbilità con altri Disturbi d’Ansia e con i Disturbi Depressivi è facile trovare ansia generalizzata in bambini e ragazzi con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività: tutto ciò rende la diagnosi differenziale particolarmente difficile. Altro elemento di difficoltà per la diagnosi può essere costituito dal fatto che si può avere l’impressione di essere di fronte ad un bambino particolarmente maturo, mentre è possibile cogliere come certi comportamenti che sembrano molto assennati sono solo frutto del tentativo di tenere l’angoscia sotto controllo . Il Mutismo Selettivo non è considerato dai manuali un Disturbo d’Ansia in senso stretto: ciononostante l’incapacità di parlare in alcune situazioni, tipica del quadro psicopatologico, può derivare dalla paura o dall’ansia creata da situazioni specifiche, senza trascurare che la comorbilità con i Disturbi d’Ansia è molto frequente, soprattutto con il quadro della Fobia Sociale. La sintomatologia può spesso essere spiegata come una forma di evitamento ansioso e tra l’altro la capacità di interpretare in questo modo le difficoltà del bambino da parte dei genitori, piuttosto che “arrabbiarsi” con lui, rappresenta probabilmente un fattore prognostico positivo.
La caratteristica fondamentale è la persistente incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche quando ci si aspetti che parli, mentre in altre situazioni parlare risulta possibile. L’anomalia interferisce con i risultati scolastici o lavorativi o con la comunicazione sociale e deve perdurare per almeno 1 mese, non essendo limitata al primo mese di scuola. Il Mutismo Selettivo non dovrebbe essere diagnosticato se l’incapacità a parlare è dovuta soltanto al fatto che il soggetto non conosce o non è a proprio agio con il modo di parlare richiesto dalla situazione sociale, come potrebbe avvenire nel caso di un bambino immigrato, né se l’anomalia è attribuibile all’imbarazzo relativo all’essere affetti da un disturbo della comunicazione. Spesso si osserva in questi bambini o adolescenti una timidezza eccessiva e patologica, una tendenza alla chiusura e al ritiro, un’ansia marcata per molte situazioni sociali che può produrre comportamenti di evitamento. Si osservano anche dipendenza ambivalente dalle figure genitoriali e concomitante ostilità. Per la diagnosi è quasi sempre necessario l’aiuto di colloqui con i genitori o gli insegnanti, proprio perché questi bambini non parlano durante la consultazione. A volte è possibile interagire attraverso un intermediario, per esempio la madre, con il quale essi parlano con voce bisbigliata. Il Disturbo d’Ansia di Separazione è uno dei pochi quadri sintomatologici solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza. La manifestazione fondamentale del Disturbo d’Ansia di Separazione è un’ansia eccessiva riguardante la separazione da casa o da coloro a cui il bambino è attaccato. Quest’ansia va al di là di quella prevedibile in base al livello di sviluppo del piccolo e tale anomalia deve durare almeno 4 settimane, iniziare prima dei 18 anni e causare disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, scolastica, o di altre aree di funzionamento. I sintomi principali sono dunque: ansia eccessiva o inappropriata per la separazione dalle figure significative, evidenziata da malessere quando avviene la separazione o anche quando essa è semplicemente anticipata con il pensiero; una preoccupazione persistente e irrealistica di perdita o paura che possa accadere qualcosa alle principali figure di attaccamento; difficoltà a stare in qualunque luogo dove sia necessario separarsi o dormire da soli, incubi connessi con la separazione; lamentele di sintomi fisici nel periodo di anticipazione cognitiva della separazione.
Contrariamente a quanto si pensi, i Disturbi d’Ansia sono una condizione alquanto frequente in età evolutiva: tra le forme infantili più diffuse nell’ambito clinico si ritrovano spesso proprio il Disturbo d’Ansia di Separazione e il Mutismo Selettivo. I fattori che predispongono a tali quadri psicopatologici sono in linea di massima il coping style e il temperamento, intendendo il primo nei termini della capacità volontaria di rispondere agli stimoli ambientali e sociali, mentre per temperamento si fa riferimento ad un elemento biologico “innato” che emerge in diverse situazioni e si manifesta in modo individuale. Altri fattori implicati possono essere quelli genetici, modalità precoci di attaccamento tra il bambino e la madre ed eventi di vita stressanti. Da sempre teorie e modelli della clinica dell’ansia nel bambino si interrogano se in età evolutiva l’angoscia sia un sintomo oppure una condizione di sviluppo e dunque fisiologica; e se l’ansia, ancora più nel dettaglio l’angoscia, sia un sintomo, di che cosa è sintomatica? Di un’alterazione neurochimica? Di un bisogno primario insoddisfatto? Di una pulsione inappagata come la definirebbero gli autori psicoanalitici? Di una minaccia esterna o, perché no, interna al soggetto?
Tradizionalmente si distinguono : -l’ansia: sentimento, o affetto penoso di attesa, di anticipazione di un evento imminente difficilmente controllabile che induce un’attivazione fisiologica (arousal), e provoca incremento della frequenza cardiaca, respiratoria, della sudorazione e di tutti gli organi sottoposti al controllo del sistema autonomico ; -l’angoscia: sensazione di estremo malessere, accompagnata da manifestazioni somatiche (neurovegetative e/o viscerali); -la paura: legata ad un oggetto, ad una precisa situazione ricollegabile sia ad un fatto dell’esperienza, sia ad un evento nell’educazione. In sostanza, un gradiente continuo collega l’ansia, l’angoscia e la paura, laddove si passa da uno stato che sarebbe di pertinenza fisiologica (reazione da stress) ad una progressiva, via via maggiore, mentalizzazione della condotta. L’ansia è un’esperienza umana universale: impossibile da eliminare del tutto ed inoltre, in molte circostanze, sana. Da un punto di vista clinico, l’ansia non può dunque essere sempre inquadrata come un disturbo . In primo luogo, non lo può essere se gli stimoli che la determinano sono oggettivamente pericolosi. In questo caso, l’ansia è un comportamento adattivo, utile a generare uno stato di allerta che rende più facile affrontare un pericolo. Prima di etichettare come patologica una risposta d’ansia, è infatti necessario che essa interferisca negativamente nella nostra vita quotidiana; mentre il secondo criterio per poter definire l’ansia un disturbo psicopatologico è quello della produzione di significativi disadattamenti, nonostante ciò questo sia fortemente influenzato dall’ambiente in cui una persona vive. A tal proposito, nei bambini e negli adolescenti dai cinque ai sedici anni sono molto frequenti le paure specifiche, in particolare degli animali, del sangue/iniezioni, del buio. Tuttavia, di questi solo l’1% può ricevere una diagnosi completa di fobia specifica sulla base dei criteri internazionali del DSM-IV-TR o dell’ICD-10, soprattutto perché spesso non interferiscono in modo significativo con la vita e non provocano disagio significativo. Gli Autori di un interessante studio sull’argomento sottolineano che alcune paure specifiche sono in parte correlate con l’appartenenza ad un gruppo etnico e mediate culturalmente da credenze, valori e tradizioni del gruppo . Ai due criteri generali sopra decritti, ne devono essere aggiunti altre due specifici per l’età evolutiva: nel bambino, lo studio dei fenomeni legati all’ansia è reso particolarmente complesso dal fatto che molte paure, come si è già avuto modo di osservare, sono frequentissime e normali in alcune fasi dello sviluppo. In secondo luogo, in età evolutiva, contrariamente all’adulto, l’ansia non può essere chiaramente percepita e verbalizzata. Sarà compito del clinico esplorare con attenzione i comportamenti del bambino, soprattutto se piccolo, che possono far sospettare l’esistenza di un problema d’ansia. La psicosomatica rappresenta un campo di grande interesse per lo studio della mente infantile. Nella maggior parte dei casi il corpo del bambino è silenzioso. Il bambino è in buona salute e secondo il detto attribuito al chirurgo Lariche: ”La salute è il silenzio degli organi”. Dispiace, pertanto, dover constatare come nei principali manuali e classificazioni diagnostiche ne abbiano ignorato per lungo tempo l’esistenza, non concedendo a questo argomento neppure lo spazio di un paragrafo. All’opposto, sono stati soprattutto gli autori della scuola psichiatrica francese a sviluppare questo tema, proponendo ampie descrizioni dei quadri clinici e articolate ipotesi interpretative.
Per un bambino piccolo, il corpo rappresenta un mezzo d’espressione privilegiato. Le manifestazioni corporee del neonato sono strettamente connesse con i suoi processi di maturazione e sviluppo e lo studio dei disturbi psicosomatici permette di esplorare quell’area d’indagine affascinante e complessa che riguarda la nascita e lo sviluppo della mente infantile. Coliche del secondo trimestre, problemi respiratori come asma e laringospasmo o problemi della pelle come eczemi o alopecia rappresentano disturbi psicosomatici tipici dell'epoca neonatale. Considerato che la madre nella nostra cultura è di solito la principale figura di accudimento, gli attuali orientamenti della ricerca hanno sottolineato come la relazione madre-bambino costituisca un complesso sistema interattivo in cui la figura materna funge da regolatore sia del funzionamento fisiologico sia affettivo del bambino, favorendo una differenziazione delle sue esperienze e lo sviluppo di un suo senso di Sé . Se questi processi di sintonizzazione affettiva madre-bambino risultano difettosi, possono manifestarsi, tra l’altro, disturbi psicosomatici di varia entità, che testimoniano il livello precoce di frustrazione nell’area dei bisogni e degli affetti e il dolore emotivo può manifestarsi come “dolore nel corpo”, riproducendo coattivamente sensazioni corporee relative al legame perduto. Le emozioni rivestono un ruolo fondamentale nella vita dell’essere umano. Esse hanno molteplici funzioni: costituiscono il primo mondo esperienziale del bambino, ci informano dell’esistenza di un pericolo, motivano le nostre azioni, ci permettono di entrare in relazione con gli altri, accompagnano i processi razionali e influiscono sui processi di apprendimento.
Lo sviluppo sociale ed emotivo del bambino è un processo complesso che dipende dall’interazione del temperamento individuale con l’ambiente sociale, pertanto è fondamentale favorire lo sviluppo di adeguati “anticorpi psicologici”, cioè la capacità di reagire in modo costruttivo al disagio emotivo piuttosto che lasciarsi sopraffare da esso. Se i bambini riescono a capire le emozioni, allora possono diventare più capaci di vivere serenamente e appieno secondo le esigenze delle situazioni in cui vengono a trovarsi. Secondo recenti studi, i bambini in realtà non solo sono in grado molto presto di cogliere il collegamento tra situazioni ed emozione, ma imparano anche ad esprimerle con un’iniziale complessità. È probabile che ciò sia dovuto, soprattutto con i bambini prima di sei anni, ad un indottrinamento da parte dei genitori piuttosto che il risultato di una vera e propria riflessione integrata in grado di guidare l’espressione emozionale (Harris, 1989). Ciò significa che anche i bambini abbastanza piccoli sanno contenere le emozioni, ma probabilmente non è il frutto della loro valutazione della situazione. Inoltre se i bambini riescono a essere coscienti dei loro stati emozionali, è facile che scoprano, almeno in parte, la non corrispondenza tra il sentire privato e l’espressione esterna nella quotidianità. In più possono imparare tali discrepanze attraverso l’osservazione del comportamento dei genitori con gli altri membri della famiglia, ad esempio quando si rendono conto che i genitori usano “parole emotive”, quando ciòè dicono che sono arrabbiati per qualcosa che ha fatto un figlio più grande, ma poi non mostrano corrispondenti indizi osservabili di rabbia interna (Dunn & Brown,1994). Secondo gli autori, prima dei sei anni i bambini riescono a capire che le persone usano indizi esterni come le espressioni facciali, per cogliere le emozioni nascoste degli altri (Banerjee, 1997) e tale capacità crescerebbe rapidamente tra i sei e i dieci anni, tempo durante il quale i bambini incominciano anche a capire le regole che guidano e motivano la non espressione esterna di alcune emozioni. Dunque la competenza emotiva si presenta come un insieme di abilità che consentono di riconoscere, comprendere e rispondere coerentemente alle emozioni altrui e di regolare l’espressione delle proprie. Aiutare il bambino nell’apprendimento di tale competenza è fondamentale, poiché essa incide considerevolmente sull’autoefficacia interpersonale dell’individuo e agevola, quindi, l’instaurarsi di relazioni positive con gli altri, favorisce comportamenti socializzanti, facilita gli scambi comunicativi e stimola la capacità di problem-solving ed una modalità costruttiva di pensiero. In infanzia si riscontrano sempre più frequentemente difficoltà emotive e comportamentali a carico dei più piccoli (ad es. demotivazione, aggressività, ansia, bullismo, incapacità di accettare le regole ecc.) e queste problematiche, se non vengono affrontate precocemente, possono portare alla comparsa a lungo termine di difficoltà in diversi ambiti. In quest’ottica, insegnare il cosiddetto “alfabeto emozionale” è un passo fondamentale del processo educativo, in quanto favorisce lo sviluppo della competenza emotiva che garantisce all’individuo non solo una crescita armonica sul piano psicoaffettivo, ma rende anche più probabile una vita relazionale soddisfacente una volta diventato adulto. La psicoeducazione alle emozioni rappresenta una valida modalità di supporto emotivo al bambino in diversi contesti problematici e, considerata l’età del piccolo paziente con il quale si lavora, lo psicoterapeuta può decidere di usufruire di strumenti realizzati ad hoc per incentivare lo sviluppo delle competenze affettivo-emotive del minore. |
A cura della Dottoressa
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